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L’Italia verso il referendum (parte 1).

(di Biagio Mannino – Giornalista  – iscritto all’ODG FVG – esperto di politica internazionale e analisi della comunicazione).
Inizia con questo post un percorso, per così dire, a puntate, dedicato al referendum confermativo della riforma costituzionale 2016.
E’ questo il tentativo di dare risposta alle numerose richieste giunte e nella speranza di chiarire i contenuti di una riforma che, al momento, non sono trattati in modo adeguato.
Un percorso, come detto, a puntate, in modo da, passo dopo passo, avere un’immagine complessiva, giuridica e politica, di quanto accade.
Incominciamo dall’inizio: cos’è una Costituzione?
Una Costituzione è la norma base di un ordinamento giuridico di uno Stato, il punto di riferimento. Per semplificare, potremmo dire che la Costituzione è “il libretto di istruzioni di uno Stato”.
La Costituzione italiana viene considerata, non a torto, se non la, una delle più belle del mondo, dove, con l’espressione “bella” si indica non solo un gusto estetico ma anche un insieme di elementi che la rendono completa nell’espressione sia dei diritti, dei doveri e del funzionamento dello Stato di cui tutti i cittadini fanno parte.
Come nasce la Costituzione?
Era il 2 giugno del 1946 quando gli italiani votarono per delegare 556 uomini e donne, dando loro l’onore e la responsabilità di traghettare un’Italia distrutta dalle vicende belliche verso uno Stato democratico, moderno ed adatto ad inserirsi nel nuovo assetto internazionale.
La Monarchia era stata sconfitta nel referendum e la Repubblica nasceva in un clima sicuramente incerto ma ricco di volontà di fare bene.
Il 22 dicembre 1947 il testo costituzionale venne approvato, il 27 dicembre promulgato e, il primo gennaio 1948, entrò in vigore.
I Padri costituenti erano rappresentanti della società italiana, in tutte le sue articolate e contrastanti manifestazioni. Rappresentanti della Democrazia Cristiana, del Partito Comunista, del Partito Socialista, e tutte le altre forze politiche, pur eredi della tormentata storia recente, pur nella dura contrapposizione, collaborarono ed accettarono il dialogo per arrivare al documento finale: la Costituzione della Repubblica Italiana.
E’ una Costituzione vecchia quella italiana?
Se per “vecchia” si intende l’età, la Costituzione italiana ha 68 anni.
Verrebbe da chiedersi se all’età di 68 anni si sia “vecchi”, “anziani” o altro. Giudichino i lettori. Il fatto è che non è l’età di una Costituzione a sancirne la validità quanto i suoi contenuti e, in merito a questo, la Costituzione italiana, ne ha moltissimi che guardano, ancora oggi, non solo al presente ma anche al futuro.
Un esempio? L’art. 9 che tutela il paesaggio. Oggi più che mai, un’esigenza fondamentale.
Come si modifica la Costituzione?
Lo dice la Costituzione stessa, all’art. 138.
Un percorso lungo e difficile, voluto proprio per garantire che i contenuti e l’assetto di sostanziale equilibri tra i poteri, fosse garantito e difeso.
Di fatto la Costituzione si modifica iniziando da una delle due Camere, Camera dei Deputati o Senato. Dopo l’approvazione nella prima delle due Camere si passa alla seconda che se approva le modifiche, consente di proseguire con l’iter.
Questo prevede una pausa, di tre mesi, dopo la quale si torna alla prima Camera e, questa volta, la riforma deve essere approvata almeno a maggioranza assoluta così come deve avvenire nella seconda Camera.
Se tutto ciò accade, entro tre mesi deve essere effettuata la richiesta per un referendum al quale sono chiamati tutti i cittadini i quali confermeranno o meno le modifiche.
Se confermeranno la riforma è completata, se non confermeranno la Costituzione non verrà modificata e tutto resterà come prima.
Tutta la Costituzione italiana è impostata su un criterio logico: se una riforma viene approvata con una maggioranza assoluta ma non qualificata ( i 2/3 dei componenti), in nome della rappresentatività del popolo, il referendum diviene l’espressione della volontà di coloro che non sono rappresentati nella volontà del cambiamento.
Essendo la Costituzione la “legge di tutti”, l’abbinamento doppio percorso parlamentare più referendum diviene il completamento dell’iter con il coinvolgimento di tutte le parti: delegati e deleganti.
Cari lettori, vi invito a leggere la prossima puntata di quello che non è un romanzo ma un tentativo, schematico, di orientamento alla riforma.
 

Referendum sulle trivelle: gli italiani dicono NO… al diritto di voto.

(di Biagio Mannino)

 

*Trionfo dell’astensionismo? Forma di protesta nei confronti della politica? Disinteresse? Ligio rispetto delle indicazioni del partito? Impegni balneari?
Non si sa. Quello che è certo è che ben il 69%  degli italiani ha disertato le urne in occasione del referendum sulle trivelle.
Potremmo porci infinite domande ma il fatto che la partecipazione popolare diminuisca nel tempo sempre di più, implica un’indiretta rinuncia a quel diritto, il voto, per il quale non troppi anni fa si combatté e per il quale, in molte altri parti del mondo meno fortunate della nostra, si combatte.

immagine per blog
Se da un lato la tecnicità del quesito ha spiazzato gli elettori, dall’altro, la carenza di informazione sullo stesso, ha completato il lavoro.
Ma il voto non è solo un diritto: anche un dovere e, di conseguenza, pretende dal cittadino quell’impegno che comprensibilmente richiede.
Se io non so… mi informo.
Ed è qui l’equivoco: l’abitudine ha reso il voto una sorta di “diritto allargato” dove oltre a beneficiarne, il cittadino, attende anche di essere dettagliatamente erudito , chissà, forse anche istruito e consigliato.
Ma il voto è espressione di consapevolezza ed autonomia dove considerazioni del tipo “libertà di scelta” o, peggio, “di coscienza”, non trovano spazio nel secondo comma dell’art. 1 della Costituzione italiana: “La sovranità appartiene al popolo”.
E la politica? Come giudica la politica la disaffezione degli italiani al voto?
Dipende.
Come in tutte le occasioni, anche i referendum divengono il momento in cui il confronto partitico si accende e, a seconda che si faccia parte di maggioranza o di opposizione, si invita al voto in un modo o in un altro dove poi, il risultato implica, o implicherebbe, la vicinanza dei cittadini alle posizioni dei vari leader.
Se invitare a votare Si o No in una consultazione referendaria già pone l’elettore in una condizione di non piena indipendenza, invitarlo a non recarsi alle urne rappresenta quanto di più lontano ci possa essere dal concetto di democrazia, dove è il popolo al centro del meccanismo.
Vero è che il paradosso della democrazia non è un’elucubrazione degna di  polverosi libri di scienza politica ma una realtà che già si è verificata: la democrazia, democraticamente, rinuncia sé stessa.
L’analisi dell’esito del risultato del referendum del 17 aprile 2016 perde di interesse per i contenuti ma ne acquista tantissimo nei significati politici.
E allora, se le domande iniziali non destavano alcun interesse, adesso, possiamo porci un quesito soltanto: il cittadino è consapevole dei diritti di cui beneficia?
L’impressione, dettata dall’andamento della partecipazione popolare al voto, è che il principio di democrazia si incammini verso un concetto di delega assoluta.
Delegare è alla base dei sistemi democratici complessi ma, in questo caso, la delega aumenta sempre più al punto tale che modifiche della Costituzione che porteranno i cittadini a votare sempre di meno, sembrano rappresentare più una valorizzazione che la perdita di un proprio diritto.
Chissà, Presidente del Consiglio Renzi, vuoi vedere che, alla fine, hai ragione  tu?

 

 

*Pubblicato su uni3triestenews – anno II – maggio 2016.

 

Nota: l’immagine in questo post è stata realizzata da Biagio Mannino.

Chàos italiano

(di Biagio Mannino)

Chàos! E’ la parola, di origine greca, che meglio identifica la situazione che la politica italiana attraversa.
E’ indubbio che, dal 1992, anno in cui il sistema partitico subiva un forte contraccolpo, periodo storico  ricordato anche come l’epoca di “tangentopoli”, la politica italiana  dovette necessariamente affrontare delle forti modifiche che, a distanza di più di venti anni, non sembrano aver  portato risultati tali da essere giudicati neppure minimamente accettabili.
Se precedentemente al 1992 il sistema parlamentare era caratterizzato da una pluralità di partiti, dopo, questa pluralità è divenuta addirittura una sorta di pluralità estrema, o estremamente caratterizzata da un numero ancor maggiore di forze politiche pronte a darsi battaglia per la conquista di un posto tanto in Parlamento quanto in un Consiglio Regionale, o Comunale o Provinciale.
Prima esistevano partiti come la Democrazia Cristiana, il Partito Liberale, il Partito Repubblicano, il Partito Comunista, il Partito Socialista, il Partito Social Democratico, il Movimento Sociale, il Partito Radicale, alcune piccole forze autonomiste e locali, una tra tutte la Lista per Trieste.
Dopo, nel nome di una sorta di purificazione della politica italiana, si cercò di giungere ad una riduzione dei partiti e il risultato fu che a quelli precedenti seguirono Forza Italia, Alleanza Nazionale, che si unirono poi in Popolo della Libertà, il PDS divenuto DS o meglio Democratici della Sinistra che unendosi alla Margherita divennero il PD ovvero il Partito Democratico, Rifondazione Comunista che si staccò dal Partito Comunista quando questo divenne il Partito Democratico della Sinistra, ma poi, Rifondazione Comunista subì la scissione vedendo la nascita de I Comunisti Italiani. E ancora… il PDL vede il distacco di una componente che diviene la forza denominata Futuro e Libertà e dopo ancora una parte fonda Fratelli d’Italia ed oggi un’ulteriore scissione istituisce il Nuovo Centro Destra mentre il partito dei Verdi, di Rifondazione Comunista e dei Comunisti Italiani trovano una convergenza di idee.     Nasce poi  SEL ovvero Sinistra Ecologia e Libertà che vede in sé il confluire di Sinistra Democratica, del Movimento per la Sinistra, di Unire la Sinistra e di varie associazioni ecologiste. Non possiamo dimenticare il Movimento Cinque Stelle di Beppe Grillo e la Lega Nord frutto  dell’unione della Lega Lombarda e della Liga Veneta, il Partito Radicale, l’UDC, l’UDEUR, l’Italia dei Valori, Scelta Civica… e tanti altri con i quali mi scuso per non averli citati ma, in questo labirinto, è facile perdersi!
Ma perché, anziché una riduzione del numero dei partiti, si è giunti a questo spropositato fenomeno che ci ricorda di più la storia del chicco di riso e della scacchiera?
I sistemi elettorali sono le regole che attribuiscono  posti all’interno delle aule parlamentari o, in ogni caso, attribuiscono la governabilità.
L’Italia, prima del 1992, era caratterizzata dall’avere un sistema elettorale di tipo proporzionale, ovvero tanti posti in parlamento in proporzione ai voti avuti.
Questo sistema implica una certa quantità di partiti poiché basta una piccola percentuale per poter conseguire un numero di posti, seppur minimo, rendendo, di conseguenza, molti i partiti.
Dopo il 1992 la legge elettorale cambiava e, al sistema proporzionale, è subentrato un sistema misto che univa un 75% di maggioritario ad un 25% di proporzionale.
Il sistema maggioritario, per sua natura, porta al bipartitismo, ovvero alla presenza in Parlamento di due sole forze politiche. Ma non bisogna confondere il bipartitismo con il bipolarismo che, di fatto, è un sistema proporzionale mascherato con il suffisso “bi”.
Il fenomeno è dovuto al  fatto che i risultati effettivi ottenuti con la modifica di una legge elettorale, ovvero nel nostro caso la riduzione del numero di partiti, si possono vedere dopo almeno15 anni dall’entrata in vigore della stessa legge.
Il passaggio dal proporzionale al maggioritario porta dal multipartitismo al bipartitismo passando attraverso il bipolarismo poiché, in fase iniziale, tutti i partiti si trovano in una sorta di linea di partenza e seguono un percorso di alleanze, unioni, scissioni, finalizzate a trovare una conformazione unica volta a… vincere le elezioni.
E’ assolutamente naturale assistere ad un aumento del numero dei partiti in attesa che questo si ridimensioni, a meno che…
A meno che, nel mezzo del percorso non ancora concluso di circa 15 anni non si cambi nuovamente la legge elettorale portandone, ad un processo in atto, un altro, aggiungendo soglie di sbarramento e premi di maggioranza confusi che solo in una direzione possono portare. Ma… quale direzione?
In questo momento storico, a distanza di più di 20 anni dall’epoca di tangentopoli, ci troviamo in una situazione che neppure i più esperti in materia elettorale sanno districare.
Il problema è che le leggi elettorali vengono determinate dai partiti stessi e questi prima guardano alle loro effettive possibilità che al corretto funzionamento del sistema e quindi, un partito piccolo sarà interessato ad una legge elettorale di tipo proporzionale mentre uno grande ad una di tipo maggioritario ma senza perdere di vista gli avversari diretti nel rischio di avvantaggiare ora uno, ora un altro e non sé stessi.
Di conseguenza o le leggi non si modificano o sono frutti pasticciati di accordi che, alla fine, non accontentano nessuno soprattutto i cittadini che, di fatto, vivono, o meglio, subiscono le scelte di una politica che si dimostra molto spesso incapace non per le singole competenze dei parlamentari quanto per le alchimie delle aule.
E allora nuovamente il dubbio: verso quale direzione andiamo?
Una sola, verso quella parola antica, quella parola di origine greca, verso il Chàos!

 

Nota: l’immagine in questo post è stata tratta da www. gliannidicarta. it.