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Strana città Trieste.

(di Biagio Mannino)
E’ una strana città Trieste.
Sì, decisamente strana.
Una città che, fino a cento anni fa, era la quarta realtà per importanza e dimensioni di un impero, quello Austro Ungarico.
Vienna, Budapest, Praga e Trieste: questi erano i luoghi dove la politica, l’economia, la finanza aveva sede e dove le decisioni venivano prese.
Città all’avanguardia in tutti i settori: da quelli urbanistici a quelli della ricerca scientifica, dalle esplorazioni geografiche allo studio della psiche, dalla musica alla letteratura.
Città strana Trieste, città di Pasquale Revoltella, uno dei più attivi investitori ed artefici della realizzazione del canale di Suez, nel cui palazzo, oggi, tanto evidenzia quell’impresa e poco o niente di lui sanno i turisti che visitano quel museo.
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Trieste e i suoi palazzi imponenti, le piazze e le vie, le chiese di tutte le religioni ben evidenziano quel passato che la portò fino ad un certo punto,  quando gli eventi della storia implosero su Vienna, Budapest, Praga e… Trieste.
In cento anni la memoria di tutto ciò è divenuta gradatamente un vago ricordo. Quasi estranei sembrano quei volti in quelle vecchie foto ingiallite dal tempo che mostrano la vivacità di quegli anni.
Volti quasi di stranieri, di gente che non si riconosce più, che quasi sembrano non appartenere alla città.
“Quando c’era l’Austria…” o “gli austriaci fecero…” sono solo alcuni esempi di espressioni che indicano un passato che non si avverte come proprio.
E’ vero che dopo il 1918 tanto è cambiato. Non solo per Trieste ma per tutto l’Impero Austro Ungarico. Si è conclusa  un’epoca in modo definitivo, l’epoca degli Asburgo, dei valzer, delle operette, dei cappelli a cilindro, delle carrozze a cavalli, degli orologi da taschino e l’Austria e l’Ungheria di allora non ci sono più.
Gli imperi centrali hanno perso la Grande Guerra ma l’Austria – Ungheria l’ha persa di più.
E dopo il 1918 a Trieste il fascismo, le leggi razziali, nuovamente la guerra, la Risiera, le foibe, la Jugoslavia, il Governo Militare Alleato  e… tanto, tanto ancora. Troppo per non lasciare il segno,troppo per non iniziare a dimenticare,  troppo per non cancellare tutto.
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Strana città Trieste, che ricorda Cadorna e ignora quasi del tutto Kugy, Ressel e Weyprecht, che celebra i Volontari Giuliani e dimentica  i quarantamila che combatterono nelle fila dell’esercito di Francesco Giuseppe.
Sì, strana città Trieste, dove la gente si considera non uguale all’altra gente ma vuole distinguersi; lo sloveno dal croato, il meridionale dal settentrionale, il greco dal serbo, l’ebreo da tutti gli altri, l’italiano prima di tutti, i cinesi trasparenti, i medio orientali con i volti arrabbiati, i senegalesi dal sorriso interrogativo, e poi gli istriani.
“I triestini sono così”, “i triestini non hanno voglia di lavorare”, “i  triestini non fanno nulla”… dicono gli altri.
Ma… chi sono questi triestini?
Se sono quelli delle foto, di quelle foto ingiallite che si trovano nei mercatini del ghetto, beh, quelli non sono triestini perché… erano triestini.
Allora forse i triestini sono ancora qui, tra noi. Ma se sono tra noi, dove sono?
Forse forse, vuoi vedere che, i triestini sono… gli sloveni, i croati, i serbi, i meridionali, i settentrionali, i greci, gli ebrei, i senegalesi, i cinesi, i medio orientali e gli istriani?
E’ paradossale allora, ci troviamo a guardarci intorno e a vederci e scoprirci tutti uguali, tutti triestini.
Quei palazzi, quelle piazze, quelle vie diventano improvvisamente più nostre, perché è proprio qui il punto: tante radici, una radice.
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E allora quella diversità diviene unità e quella diversità diviene appartenenza e quella diversità diviene identità.
Strana città Trieste, cinquecento anni di storia con l’Austria e poco meno di cento con l’Italia. Nazionalisti e nostalgici a volte addirittura coincidono e in quel caffè o nell’altro celebrano ora Nazario Sauro ora Maria Teresa.
“Tuo nonno ha combattuto in Ungheria” sussurrava la madre al figlio, quasi vergognandosene. Ma quella memoria, quella della propria famiglia, quella della propria storia avvertiva quasi inconsciamente che non doveva essere perduta.
E se questo accadeva fino a pochi anni fa, oggi spuntano da ogni parte documenti, immagini e testimonianze di ogni tipo che non più timidamente si fanno sentire, quasi gridando la loro presenza, ieri e soprattutto oggi.
Strana città Trieste che con l’arrivo di settantamila istriani dopo la seconda guerra mondiale ne ricorda la storia e ne dedica musei e monumenti ma tende a dimenticare quei trentamila triestini che  lasciavano la città per mete ben più lontane come l’Australia e il Sud America alla ricerca di ricominciare una vita devastata dalle scelte politiche post 1918.
Stana città, sì, Trieste, dove i figli e i nipoti di quei settantamila istriani non vogliono saperne  delle loro vicine origini e dove quelli di allora si ancorano nei ricordi e nelle contrapposizioni quasi a volere isolare “l’altro” ma finendo per isolare sé stessi e gli altri.
Ma come fa un italiano a capire cosa sia questa città, come fa a capire quando neppure chi la spiega ha compreso qualche cosa perché lui stesso è figlio di un percorso caotico di rimozione del ricordo, del ricordo di quei volti di triestini in quelle foto ingiallite che si trovano nei mercatini del ghetto?
E i ragazzi cinesi, i ragazzi senegalesi e tutti quei giovani che arrivano da tutti i luoghi del mondo, così come arrivavano nel ‘800 a creare la città, oggi, cosa sanno della loro città?
Strana città Trieste…
Nota: le immagini in questo post sono tratte dall’archivio ArFF: Collezione Bruno  Pizzamei. Si ringrazia il Professore Bruno Pizzamei per la condivisione e per aver autorizzato la pubblicazione delle foto.
La foto in copertina è di Biagio Mannino.

L’Italia verso il referendum (parte 4).

(di Biagio Mannino – Giornalista  – iscritto all’ODG FVG – esperto di politica internazionale e analisi della comunicazione).
In cosa si differenzia la Costituzione riformata da quella vigente?
Attraverso un percorso comunicativo alquanto discutibile, si sostiene che la riforma sia indirizzata, se non esclusivamente, almeno in gran parte al Senato.
In realtà è l’intero assetto della seconda parte del testo costituzionale ad essere modificato poiché, il principio base del bicameralismo perfetto viene trasformato in un bicameralismo del tutto asimmetrico con un forte sbilanciamento a favore della Camera dei Deputati.
Di conseguenza, se osserviamo che il sistema parlamentare italiano si basa proprio su un sistema di pesi e contrappesi, è assolutamente riduttivo definire con l’espressione “riforma del Senato” l’iter intrapreso.
Vediamo, in modo schematico, cosa cambia:
COSTITUZIONE VIGENTE:
  1. Sistema bicamerale perfetto (le due Camere hanno funzioni medesime tra le quali la funzione legislativa e la funzione di dare e togliere la fiducia al Governo).
  2. La Camera dei Deputati ha 630 membri.
  3. Il Senato ha 315 membri.
COSTITUZIONE RIFORMATA:
  1. Il bicameralismo è assolutamente imperfetto.
    La funzione legislativa è di pertinenza della Camera dei Deputati, la quale esercita la funzione di dare e togliere la fiducia al Governo.
    Il Senato si occupa di materia regionale e di relazioni con la UE.
  2. La Camera dei Deputati ha 630 membri.
  3. Il Senato ha 100 membri.
La riforma è molto più articolata e complessa ed affronteremo questi aspetti successivamente così come gli aspettti legati ai Senatori a vita ed i Senatori di Diritto a vita.
Intanto occorre riflettere su questi primi punti.
Mentre nella Costituzione vigente le leggi vengono approvate dalle due Camere, seguendo un iter sì complesso ma voluto a garanzia e tutela dei cittadini, nella Costituzione riformata le leggi sono di pertinenza della sola Camera dei Deputati. Questo velocizza il percorso di approvazione ma toglie una funzione di controllo tra le due Camere.
Analogamente quel rapporto che si instaura tra il potere legislativo (Parlamento) ed esecutivo (Governo), basato appunto sulla fiducia, diviene pertinenza della sola Camera dei Deputati la quale vede in sé concentrata la funzione legislativa e la capacità di “fiduciare o sfiduciare” il Governo.
Se le metodologie di una visione della politica sempre più globalizzata impongono la dinamicità, analogamente, le esigenze di garanzia impongono la presenza di elementi che costituiscano dei punti di sostanziale equilibrio tra i poteri.
In questo caso il forte sbilanciamento non trova alcun “salvagente”.
Nei sistemi monocamerali o bicamerali imperfetti presenti nel mondo, le limitazioni sono date dalla legge elettorale che, quasi sempre, è di tipo proporzionale.
Nel caso specifico della riforma costituzionale italiana è affiancata una legge elettorale, l’Italicum, che dà un premio di maggioranza alla lista che ottiene il 40% dei consensi alle elezioni o, in alternativa, vince il ballottaggio successivo.
Questo implica che sia la fiducia al Governo che la capacità di fare le leggi diviene esclusiva pertinenza di una forza politica unica e ciò implica una mancanza di punti di equilibrio.
Se consideriamo poi che i componenti del Senato verranno delegati dalle Regioni in attesa di una legge che ne regolamenti l’accesso, è facile intuire che la sovranità popolare sancita dal secondo comma dell’art. 1 è messa fortemente in discussione.
Vero è che un sistema di questo tipo collocherebbe l’Italia come tra le nazioni più rapide nella capacità decisionale ed esecutiva. Ma un dubbio si pone: l’Italia è matura per un sistema di questo tipo, sostanzialmente slegato da vincoli, quando sistemi ben più antichi e consolidati, come quello degli USA, hanno punti di equilibrio e contrappesi?

L’Italia verso il referendum (parte 3).

(di Biagio Mannino – Giornalista  – iscritto all’ODG FVG – esperto di politica internazionale e analisi della comunicazione).
La modifica di una Costituzione lascia immaginare che questa venga fatta per modernizzarla, renderla semplice nell’interpretazione, agile nell’applicazione, contemporanea e, quindi, al passo con i tempi.
Poiché, come abbiamo detto nella prima puntata, una Costituzione è la  norma base di riferimento dell’ordinamento giuridico di uno Stato, questa deve necessariamente fissare dei punti e contemporaneamente avere delle caratteristiche di programmaticità per il legislatore.
Cosa significa tutto ciò?
Significa che la Costituzione dà delle indicazioni ed all’interno di queste il legislatore si muove.
Di conseguenza le Costituzioni più sono brevi e maggiore è il livello di agilità di uno Stato, più sono lunghe è maggiore è il livello di rigidità in cui lo stesso si trova.
Una Costituzione si definisce lunga quando ha un numero consistente di articoli che la compongono.
E’ altrettanto lunga una Costituzione che, pur composta da un numero ridotto di articoli, sia caratterizzata da una complessa  interpretazione di questi, dovuta proprio alla loro singola lunghezza.
In definitiva l’efficienza di un testo costituzionale è dato dalla più semplice interpretazione possibile.
La Costituzione Italiana non è considerata lunga e non è neppure tra le più brevi.
Si pone, con i suoi 139 articoli e 18 disposizioni transitorie e finali (nella versione del 1948, 134 articoli dal 2001) come un testo di sicura e buona agilità. Sarebbe sufficiente… applicarla.
Sul tema dell’applicabilità torneremo successivamente. Intanto osserviamo come la riforma dovrebbe, secondo quanto detto, semplificare la Costituzione figlia dei Padri Costituenti eletti dal popolo italiano il 2 giugno 1946.
Secondo il principio sopra espresso è facile immaginare che si sia raggiunta quanto meno una semplificazione interpretativa del testo ed invece, nonostante la riduzione a 131 articoli,… così non sembra.
Un esempio è ben rappresentato dall’art. 70 che è possibile leggere nell’immagine (figure  A e B).
(Nota per la lettura: a sinistra il testo dell’attuale  Costituzione del 1948, a destra il testo della riforma 2016 – fig. A e B)
fig A rif cost art 70
fig B rif cost art 70
Come è possibile notare non solo la lunghezza aumenta in modo considerevole ma anche l’interpretazione diviene complessa, non evidentemente chiara, fonte di differenti valutazioni e questo di conseguenza, porta non ad uno snellimento bensì ad un irrigidimento della comprensione e dell’applicabilità del funzionamento dello Stato.
Il problema che si pone è evidente già nell’immagine visiva del testo riformato.
La necessità che la lettura di una Costituzione richiede è quella di dare un messaggio che non crei situazioni conflittuali nell’interpretarlo e sia evidente nei contenuti e nelle indicazioni.
Nel caso dell’art. 70, in particolare, viene trattata la funzione legislativa.
Non possiamo dimenticare che alla base del principio di democrazia c’è proprio la funzione legislativa che, accanto a quella esecutiva e giudiziaria, rappresenta la così detta separazione dei poteri.
Ed è qui che la riforma mostra un punto di debolezza poiché nell’esprimere quei contenuti fondamentali mostra complesse articolazioni quando invece è la semplificazione ad essere strutturalmente fondamentale.
Cari lettori, siamo solo agli inizi di un percorso analitico della riforma costituzionale 2o16
sotto gli aspetti non solo giuridici ma anche politici.
Vi invito perciò a continuare a seguire queste “pillole” informative.
Nota: i testi delle fig. A e B sono tratti da: Riforma  costituzionale. Testi a confronto. – edito da PD – Partito Democratico – Genova.