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La Croazia verso il futuro. di Biagio Mannino

Recentemente, presso la sala Tessitori, in Piazza Oberdan a Trieste, si è svolto il seminario Italia – Croazia 2014.

L’evento ha rappresentato un’importante ed utile occasione per fare il punto sulla situazione economica della Croazia ed anche sulle modalità di collaborazione tra i due Stati. A tale riguardo molto interessanti sono state le proposte indirizzate proprio alle prospettive.

La situazione croata in ambito economico oggi risente, come quelle di tutti gli Stati dell’area europea, della difficile condizione economico-finanziaria originata dagli Stati Uniti nell’ormai lontano 2008.

La Croazia presenta le problematicità tipiche di quegli Stati che, definibili come piccoli per le loro caratteristiche demografiche e territoriali, si trovano necessariamente a dipendere da realtà più grandi in tutti quegli aspetti, dalle esportazioni al turismo, che garantiscono loro il mantenimento della propria iniziativa economica.

Se poi consideriamo la ancor vicina e tragica esperienza di una guerra, è comprensibile come la posizione contemporanea della Croazia sia alquanto complessa e difficile.

Con l’entrata nell’Unione Europea, le difficoltà permangono e, se guardiamo attentamente, tendono anche ad aumentare poiché il percorso di ammodernamento delle strutture burocratiche, sociali, amministrative e tutto ciò che riguarda lo Stato, impongono alla Croazia impegni ulteriori.

Il livello della disoccupazione è elevato, quello dei conti dello Stato sociale anche ma, nel lungo periodo, le prospettive sembrano proporre soluzioni e miglioramenti veri e propri.

Infatti i fondi europei porteranno in terra croata una quantità di denaro decisamente imponente con il chiaro intento di ristrutturare l’intera Croazia.

Gli interrogativi però non mancano. Come verranno gestiti? Quali effetti produrranno?

Gli studi attuali e le idee sembrano andare in una direzione precisa: il turismo.

La volontà è quella di far sì che la Croazia scali la classifica dei paesi turistici portandosi dal trentasettesimo al ventesimo posto nel giro di pochi anni.

Uno sforzo assolutamente notevole, poiché si parla di milioni di turisti in più che necessitano di strutture alberghiere e logistiche in grado di garantirne l’accoglienza: aeroporti, strade di accesso, luoghi di svago tipici del settore.

Ma se il turismo di massa garantirebbe una forte affluenza di denaro nelle casse, diviene fondamentale chiedersi quanti di questi soldi rimarrebbero in Croazia. La gestione di queste strutture e la loro realizzazione verrebbe attuata da aziende croate o da aziende europee? I fondi porterebbero un’effettiva ricchezza al popolo croato o semplicemente transiterebbero in Croazia verso altre direzioni?

Va considerato anche il tema dell’impatto ambientale. La prospettiva urbanistica vedrebbe grandi complessi alberghieri, campi da golf e quant’altro, e tutto ciò dovrebbe armonizzarsi con quel paesaggio che rende attraente la Croazia.

L’Istria che oggi è, assieme alla Dalmazia, la regione guida in ambito economico-turistico, si troverebbe ad affrontare un serio cambiamento ed adeguamento alle esigenze necessarie. Ma che fine farebbero quelle immagini tipiche del paesaggio istriano, di piccoli paesi sul mare o nell’interno, con le campagne e le colture di ulivi?

Gli esperti croati stanno cercando di valutare al meglio le scelte da fare guardando proprio verso l’Italia, ed alla sua esperienza nell’ambito della piccola e media impresa, ma anche agli errori commessi nel passato.

La speranza è che la Croazia in generale, e l’Istria in particolare, non diventino come Venezia, città simbolo di una decadenza fortemente accentuata dalla prospettiva di un’apparente rinascita. Il turismo può essere fonte di ricchezza, ma anche di disastri quando venga gestito in modo semplicistico.

 

Nota: l’immagine in questo post è stata realizzata da Biagio Mannino.

Quella notte erano tutti lì. di Biagio Mannino.

Quella notte erano tutti lì. Sì, davanti alla Porta di Brandeburgo c’erano davvero tutti, i tedeschi dell’est e quelli dell’ovest. Li chiamavano proprio così, i tedeschi… quelli dell’est e quelli dell’ovest, non come ora, che li chiamano solo “i tedeschi”.

berlinwebUn popolo diviso dalla politica che trova nella politica, ventotto anni dopo l’edificazione del terribile simbolo, la forza di compiere un gesto forte, con conseguenze fortissime: l’abbattimento del muro di Berlino e l’inizio conseguenziale della riunificazione della Germania.

L’immaginario collettivo contemporaneo, soprattutto quello rappresentato dalle più giovani generazione, difficilmente riesce a ricordare o solo immaginare cosa rappresentasse quel muro.

ACHTUNG! Sie verlassen jetzt WEST – BERLIN” (ATTENZIONE! Lei sta per lasciare Berlino Ovest) così un cartello, posto davanti a quella famosa porta, informava i cittadini della parte ovest di Berlino che, proseguendo, stavano per giungere nella parte est della città e, quindi, nella Repubblica Democratica di Germania, più comunemente conosciuta come “Germania Est”.

Quasi duecento chilometri di cemento con torrette di avvistamento, filo spinato, allarmi, guardie armate circondavano Berlino ovest isolandola e collocando i suoi abitanti in una situazione di solitudine materiale e, soprattutto, psicologica, dove le ripercussioni di quello stato di cose avrebbe prodotto conseguenze nelle generazioni successive.

Molte sono le immagini, che ormai appartengono agli archivi della storia, in cui anziane madri tentano, con gesti, di mandare segnali di affetto ai propri figli al di là di quel confine cittadino costruito dalla politica, che le divide nella loro semplice quotidianità; altre in cui alcuni tentano di scavalcarlo, quel maledetto muro, ma vengono bloccati da colpi di arma da fuoco.

Le idee per saltare quel muro erano molte e tra le più stravaganti ci fu quella di un cittadino di Berlino est che tentò l’attraversamento del confine con una piccola mongolfiera casalinga.

Il mondo guardava e la politica usava: “Ich bin ein Berliner” (Io sono un berlinese), diceva Kennedy, il 26 giugno 1963, un chiaro messaggio con il quale il Presidente americano mostrava la vicinanza degli Stati Uniti alla Germania occidentale in generale ed alla città di Berlino in particolare, in netta contrapposizione con l’altra espressione di solidarietà, quella dell’Unione Sovietica verso la Germania orientale, artefice della costruzione del muro .

La frase di Kennedy rimane ancora oggi un insieme di suoni vocali che si trasformano in una sorta di immagine, in un’icona della storia. E ancora, un’altra icona, rappresentata da quella Trabant (idem) che varca le macerie fatte di sassi e cemento, frutto della gioia incontenibile della notte del 9 novembre 1989.

Giovani di tutte le nazionalità, con i volti ricchi di felicità, si incontrarono in un abbraccio di folla, illuminata a giorno dalle luci delle riprese televisive mondiali che resero incancellabili quelle scene di giubilo di una Germania che ringraziava il mondo, e l’Europa in particolare, per quel percorso fatto di cambiamento o, per meglio dire, di perestrojka, rendendo il momento adatto alla riunificazione.

E sì, c’erano proprio tutti in quella piazza, davanti alla Porta di Brandeburgo e, chissà, c’era forse anche Angela Merkel?

Gli anni sono passati e oggi, a ricordarci quei giorni e le sensazioni dell’importante periodo storico, sono rimasti solo i libri ed i documentari.

Nel frattempo la Germania si è, per così dire, data da fare.

Berlino, negli anni novanta divenne un enorme cantiere volto a ristrutturare completamente quella che doveva tornare ad essere rapidamente la capitale della Germania unita, ovvero… la Germania.

Ricordo che mi trovavo in quella città ed era impressionante vedere, dalla metropolitana sopraelevata, di sera, le luci a perdita d’occhio dei cantieri e quelle gru così numerose che sembravano tantissimi alberi, alberi di ferro.

Un enorme cantiere che produceva cemento, questa volta per i palazzi e i grattacieli e non più per quel muro.

Ma ricordo anche la periferia di Berlino est e i paesi, andando verso il confine con la Polonia, dove certo non era il ritrovato benessere ad essere il biglietto da visita, anzi.

La Germania, quella riunificazione, la volle fortemente e l’Europa anche la voleva. Certo che Margaret Thatcher e Francois Mitterrand non erano così entusiasti, la prima poiché considerava il popolo tedesco come un popolo ricco di intima belligeranza, il secondo poiché riteneva che un vicino così grande, al centro dell’Europa, fosse estremamente ingombrante. Ma molti considerarono le loro opinioni come l’espressione di una visione della politica ancora legata ad esperienze ormai lontane.

E il popolo tedesco? Il popolo tedesco era inebriato da un senso sì nazionalistico ma, potremmo dire, ispirato ad una visione internazionalistica, dove il desiderio della riunificazione si accompagnava a quello della fine di una guerra, quella fredda, che, di fatto, rappresentava la conclusione di quel tragico percorso iniziato con la Prima e proseguito con la Seconda Guerra Mondiale. Tre eventi, che hanno sempre avuto al centro del tutto proprio quella Germania e quel popolo che in quel 1989 era assolutamente desideroso di… Europa!

E sì, c’erano proprio tutti quella notte davanti alla Porta di Brandeburgo, a Berlino…

Bisogna far pagare le autostrade tedesche ai cittadini stranieri”. Così si esprimeva, il giorno dopo la vittoria della CDU nelle elezioni dei Land, che solo di pochi giorni anticipavano la vittoria trionfale di Angela Merkel, nel mese di settembre di quest’anno, il 2013.

Vero è che parlare di “cittadini stranieri” oggi, in quell’Europa Unita, dove i confini sono divenuti strisce disegnate sull’asfalto, crea un po’ di confusione. Ma… cosa si intende per cittadino straniero? Un Europeo, un extracomunitario o semplicemente un ”exstragermanico”?

E poi, non siamo in quell’Europa dove vige la libera circolazione di persone e cose? Strano che questa osservazione venga proprio da esponenti di quel partito che aveva, in Helmut Kohl, uno dei principali artefici della politica di riunificazione tedesca e, altrettanto strano, che venga da uno dei Land di quello stato, la Germania, appunto, che era tanto europeista già ventiquattro anni fa.

Forse oggi sotto la porta di Brandeburgo non ci andrebbe nessun greco, o spagnolo, o italiano o tanti altri cittadini che vivono, di riflesso, la politica tedesca, che impone scelte che appaiono più frutto di decisioni unilaterali che collegiali, che del resto dovrebbero essere prese in un contesto di aggregazione di Stati, come è l’Unione Europea.

La politica del rigore, secondo una visione tedesca, impone scelte e sacrifici che non possono non produrre risultati di inevitabile recessione per chi li adotta.

Se, per far fronte al risanamento dei bilanci, occorre passare attraverso l’aumento della tassazione ed il contemporaneo abbassamento della spesa pubblica, diviene inevitabile che l’impoverimento di quella che è la maggior parte della popolazione trasformi una società di cittadini medi in una di cittadini poveri e, la povertà, non fa fare acquisti.

In una società dove “consumismo” è la parola d’ordine, l’assenza del denaro impone il risparmio forzato che si traduce in calo, o meglio, crollo delle vendite e queste trascinano, inevitabilmente al ribasso la produzione, che porta come effetto ad un inevitabile ridimensionamento della forza lavoro e, quindi, di altri consumatori.

Uno Stato povero, in un mondo globalizzato, diviene appetibile poiché a saldo si acquistano partecipazioni, parziali o totali alle fonti produttive più importanti, a quei sistemi che lo rendono forte ed indipendente.

Ma, se l’Europa doveva nascere, doveva farlo con quel fondamentale principio di limitazione delle sovranità. Un’Unione Europea che divenga Stati Uniti d’Europa deve vedere i proprio membri rinunciare a parte delle proprie sovranità a favore di un ente centrale che dia ad essa una visione comune ma, in particolare, una forza coercitiva comune che imponga le scelte: limitazione delle sovranità e politica condivisa, non guerra economica portata a colpi di finanza e giochi di borsa.

All’alba delle recenti elezioni in Germania, quella unita già da ventiquattro anni, Angela Merkel ha ottenuto un grande risultato, che mostra come il gradimento del popolo tedesco si sia riflesso in lei in particolare e nei confronti del suo partito. E questo è ulteriormente dimostrato dal fatto che gli alleati nel precedente governo, i liberali, hanno perso talmente tanto consenso da essere estromessi dal parlamento.

Se, da un lato, il successo gratifica, dall’altro punisce poiché, ora, la governabilità dovrà necessariamente passare attraverso una coalizione con forze non affini.

Si verrà a creare un percorso in cui gli ostacoli diverranno responsabilità dei piccoli partiti poiché, quello grande, quello della Merkel, ha alle spalle la politica di rigore di Angela Merkel, che ha reso la Germania grande in un’Europa che non va e, gli altri partiti, quelli anti europeisti, o meglio, anti europeisti del sud, troveranno la via in un’accelerazione del populismo per ottenere un consenso maggiore in vista di ipotetiche elezioni anticipate. Un po’ come in Italia…

E sì, quella notte c’erano proprio tutti davanti alla Porta di Brandeburgo…

Nota: l’immagine in questo post è stata tratta dal libro “Il muro che cambiò la storia” – edizioni Il Sole 24 ore – 2009.