Nei Griffin non c’è spazio per l’ipocrisia.

61UlQ0HnlEL._SX425_(di Biagio Mannino)

Era il 31 gennaio del 1999 quando, negli Stati Uniti, andava in onda il primo episodio della serie “I Griffin”.
Nati da un’idea di Seth MacFarlane, dopo qualche problema, iniziò il successo e l’affermazione un po’ in tutto il mondo, al punto di raggiungere il numero di quasi 300 episodi.
Definirli un “cartone animato” è riduttivo poiché I Griffin sono ben di più-
Infatti rappresentano l’analisi della società americana e non solo, in modo assolutamente spregiudicato, privo di alcuna diplomazia, senza alcuna ipocrisia e, molto spesso, facendo sussultare lo spettatore di fronte a certe considerazioni il cui contenuto tutti lo pensano ma, pochi o nessuno, osa dirlo.
Politicamente scorretti o, semplicemente realisti, I Griffin rappresentano quello che si ritiene di una società ricca più di difetti che di meriti. E poiché la società è composta da tutti noi, I Griffin diventano lo specchio che ci riflette, con quello che di fatto siamo, con tutto ciò che non vorremmo vedere.
E questo non si limita alla realtà degli USA ma si estende a quel mondo occidentale che, proprio con gli Stati Uniti, ha creato una sorta di visione omogenea dell’essere cittadino.
Offensivi?, Maleducati? Brutti nel sentirli e nel vederli?
Nulla di tutto questo. I Griffin sono l’uomo nella sua essenza recondita, nascosta che appare in un modo ma, poi, si realizza in un altro.
Gli episodi ruotano intorno ad un meccanismo del tutto originale dove, la famiglia Griffin vive in una piccola cittadina ma in cui le caratteristiche del modo di vivere assomigliano anche a quelle usanze metropolitane.
I Griffin sono quella famiglia media dove al padre, Peter, grasso, pasticcione, incline al lasciarsi andare e al bere, si contrappone la moglie, Lois, che rappresenta il vero pilastro e sostegno, in particolare per i tre figli: Chris, Meg e Stewie.
Mentre i primi due sono adolescenti con le tipiche problematiche di quell’età e, di conseguenza, rappresentanti lo stile di vita dei giovanissimi contemporanei, il terzo figlio, Stewie, è un bambino di quasi un anno.
Ed è proprio in Stewie che la grandezza dell’idea dell’autore si mostra in tutta la sua forza poiché questo è il personaggio su cui la serie ruota senza, però, renderlo protagonista.
Stewie è il genio, dotato di cattiveria mista a bontà, pronto a cogliere i difetti e le mancanze, di tutti, a mostrare la vita per quello che è.
Stewie è poi supportato dall’altro personaggio base della serie: il cane Brian.
Un cane che cammina su due zampe, che guida l’automobile, che consiglia, grazie alla sua saggezza, che scrive e pubblica libri e che, alla fine, solo, cade nell’alcolismo, nella droga, nei vizi di tutti i tipi e di tutti i generi.
Il rapporto bimbo – animale diviene una trasposizione dell’animo umano tra pregi e virtù in una sorta di continua lotta e collaborazione per far fronte alla causa, o alle cause, della depressione.
Una depressione sociale? Una depressione personale? Non ha importanza. E’ il malessere che accomuna tutti e rende, alla fine, tutti eguali.
Stewie e Brian sono la trasposizione di quello che era Truman Capote con le sue difficoltà, i suoi difetti, i suoi valori. Qui, i due personaggi, uniti e divisi, si compensano e rappresentano gli altri.
Una società finta, fasulla, quella dei Griffin, dove gli amici sono tali ma dove poi il tradimento è sempre in agguato.
Il filo che traccia la linea comune viene poi rappresentato dalla sessualità che ben avrebbe dato ragione a Sigmund Freud. Qui diviene una sorta di ossessione che sempre appare come motore di tutti i comportamenti, causa ed effetto dell’essere umani.
Non c’è diplomazia nei Griffin: viene mostrata chiaramente la società per quella che è.
Tradimenti e rischi, dolori e tristezze sempre però nello scherzo tipico della struttura dei cartoni animati.
Ed è qui il gioco che si instaura in questa serie, nel momento in cui l’uso della fantasia abbinato alla capacità degli autori e dei creativi, permette di parlare al pubblico senza problemi e in modo esplicito.
Quello che non si sarebbe potuto fare con attori, si è fatto con i disegni.
La società scandagliata nei minimi aspetti e che evidenzia, alla fine, un messaggio sociale ed educativo.
Come quando, ad esempio, Brian si trova sotto i terribili effetti della droga e quei difficili momenti divengono messaggio per chi guarda o, analogamente, l’isolamento di Meg all’interno della famiglia, non è altro che un segnale ed un invito ad occuparsi e ad apprezzare i propri figli.
C’è di tutto, nei Griffin, tutto ciò che è e che non dovrebbe essere, tutto ciò che non c’è e dovrebbe esserci.
L’amicizia e la falsa amicizia, il senso di frustrazione, il desiderio di essere migliori, di affermarsi, la bontà e la cattiveria, il pericolo e l’insicurezza, l’ignoranza e il resto.
Regna l’ipocrisia nella società dei Griffin e i Griffin la mostrano alla società. Mostrano l’ipocrisia senza ipocrisia.
I Griffin, una seduta psicoterapeutica mediatica,sicuramente una serie di grande valore!

 

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NOTA: le immagini in questo post sono tratte da www. google. it. Il video presente in questo post è stato tratto da www. youtube. it.

Telemachia.

Digitalizzato_20180804(di Anna Piccioni)

Ancora prima che Massimo Recalcati parlasse della generazione Telemaco in “Il complesso di Telemaco” del 2013 , Roberto Calogiuri nel 2009 ha pubblicato “Telemachia”; giusto per dare una corretta posizione temporale a una tematica o meglio su un personaggio mitologico che per alcuni giovani esponenti politici è diventato il simbolo delle nuove generazioni. Ma la figura di Telemaco non è sovrapponibile: per Recalcati “Telemaco, il figlio di Ulisse, attende il ritorno del padre; prega affinché sia ristabilita nella sua casa invasa dai Proci la Legge della parola. In primo piano non è qui il conflitto tra le generazioni (Edipo), né l’affermazione edonista e sterile di sé (Narciso), ma una domanda inedita di padre, una invocazione, una richiesta di testimonianza che mostri come si possa vivere con slancio e vitalità su questa terra.
Riscrivere la figura di Ulisse, Odisseo, con gli occhi del figlio Telemaco: questo fa Roberto Calogiuri nel suo romanzo “Telemachia”. Telemaco il figlio che aspetta un padre che non ha mai conosciuto. La domanda ricorrente è perché: come può un padre partito per una guerra durata dieci anni, lasciando la giovane moglie e un bimbo in fasce, non sentire il desiderio l’amore per ritornare in patria, almeno per far sapere di essere vivo.
Paolo di Paolo in “Il Mal del Tempo o della Telemachia” così scrive “La vita che c’è stata prima per capire la vita che tu sei adesso. Non la trovi sui libri, bisogna ascoltare le voci di chi c’era. Bisogna andarseli a cercare i padri, guardarli per quello che sono e riconoscerli nel loro valore.
Questo gli antichi lo sapevano bene. L’Odissea si apre con Telemaco esasperato dai prepotenti che banchettano in casa sua, i Proci, gli arroganti del potere, i corrotti. Anche Telemaco ha il Mal del Tempo, ha problemi col suo presente: ogni mattina anche lui si chiede: dove siete tutti, o eroi di cui a lungo ho sentito raccontare e facevate di Itaca un nobile regno? Dov’è mio padre? Chi è mio padre? E così parte per cercare Ulisse. E il figlio non raccoglie testimonianze completamente positive sul genitore. Anzi. Il vecchio Nestore racconta che mentre lui dopo la guerra ha fatto con saggezza immediatamente rotta verso casa ed è arrivato sano e salvo, Ulisse ha voluto compiacere lo stolto Agamennone e lo ha seguito per compiere un’ecatombe che avrebbe dovuto placare l’ira di Atena, atto quanto mai inutile e scellerato. Insomma Nestore lascia intendere a Telemaco che se suo padre non è a casa come tutti gli altri è perché ha commesso qualche empietà di troppo. Eppure è il grande Ulisse, l’eroe dal multiforme ingegno, l’unico in grado di sconfiggere l’arroganza dei Proci e riportare saggezza a Itaca. È un grande padre, ma non è perfetto. E forse è proprio questo che lo rende grande. “
Nel romanzo di Calogiuri Telemaco s’interroga continuamente chi sia suo padre, se veramente è o è stato quel grande eroe di cui ha sentito parlare, sembra quasi abbia dei dubbi. Telemaco deve diventare adulto senza la presenza del padre. Quando arriva non è più un adolescente che cerca la sua identità, non ha bisogno del padre per crescere anzi è un estraneo lo straniero che si svela genitore. Ma ha bisogno di lui per sconfiggere i Proci. E la condanna che seguirà non lo sconvolge, avendo più volte pensato che se avesse ucciso il padre non avrebbe potuto considerarsi parricida.
All’inizio del romanzo Telemaco ormai vecchio è tormentato da notti insonni popolate dai fantasmi del suo passato. Policasta, la figlia di Nestore, sua dolce sposa, coricata vicino a lui non dormiva:”sapeva che nessuna parola avrebbe alleviato il peso che quell’uomo,il saggio e avveduto Telemaco, portava dentro di sé…Dopo molti anni era ormai rimasta la sola a conoscere quali pensieri la mola della sua mente macinasse senza interruzione. E questo aveva creato un legame profondo e fermo come quel silenzio”.

Telefonate che passione!

(di Biagio Mannino)

Vi è mai capitato di ascoltare, ovviamente, in modo assolutamente casuale, le telefonate di chi vi circonda?
Non c’è che dire: si sente di tutto!
Il bello è che le persone parlano al telefono sentendosi completamente a loro agio, ovunque e… comunque!
Anzi, quasi quasi siete proprio voi gli intrusi che, vi trovate a passare di là, o ad aspettare l’autobus, o a sedervi in treno proprio in quel posto o ad accomodarvi proprio nel tavolo vicino, in un bar.
No, non sta bene che ascoltiate, non è buona educazione e, quindi, andatevene!
La gente parla parla parla incurante di tutto e di tutti e voi, se avete un minimo di attenzione, vi imbarazzate non al contenuto delle chiacchierate disinvolte di perfetti sconosciuti ma alla sola idea di poter sentire quello che si dicono.
E’ meraviglioso vedere da lontano gesticolare animosamente una persona che cammina veloce, assumendo una mimica facciale che dà spazio alla fantasia, all’immaginazione solo guardandola.
E così vedere una signora serenamente seduta nel posto degli invalidi, in un autobus pieno di gente sudaticcia, conversare beatamente di pasta e fagioli mentre un anziano uomo, afflitto dal tempo e dalle disgrazie, cerca di farle capire quanto meglio sarebbe per lui sedersi e gratificante per lei lasciare quel posto.
Ma se nei locali, alla sera, inizia a dominare la musica, quella bella musica, quella a tutto volume, diventa fondamentale la chiacchierata con l’amica per farle capire, o meglio non capire… qualsiasi cosa.
A dire il vero non ho mai prestato particolare attenzione alle telefonate degli altri. Mi sono sempre curato delle mie vivendole sempre con estremo imbarazzo.
All’esterno non telefono se non per motivi strettamente necessari e, analogamente, cerco di non rispondere se non… per motivi strettamente necessari.
Sì, è un rapporto difficile quello mio, con il telefono, ma ringraziando la tecnologia, sono tanti i metodi di comunicazione che mi vengono in soccorso.
Ma gli altri no e, come detto, la strada è il loro salotto. E quando dico il “loro” salotto, intendo dire il “loro” salotto.
Un bel giorno procedevo lungo il mio percorso e, inevitabilmente, la mia attenzione venne colta dalle urla di una ragazza, ovviamente, al telefono.
A dire il vero avrà avuto una trentina d’anni ma, come definirla se non ragazza?
Sì, forse questo è un argomento che affronteremo in un altro post…
Ebbene, questa ragazza urlava, per così dire, tranquillamente, venendomi incontro sul marciapiedi.
Pensai che forse le era successo qualche cosa, provavo un sentimento di “quasi” angoscia per lei e, poi, le sue urla si trasformarono in parole comprensibili e il tutto si mostrava a me come un litigio con un uomo di nome Fabio.
“Chi era Fabio?”, mi dissi, “il fidanzato,? Il marito? Forse un collega?”.
Beh, non lo so.
Tutto questo, però, mi fece scattare un nuovo livello di osservazione di ciò che mi circondava e la mia attenzione, inevitabilmente, veniva attratta sempre più dalla gente che parlava al telefono… per la strada.
Infatti, pochi metri avanti, un’altra telefonata attirò nuovamente la mia attenzione e, anche in quel caso, toni forti ed accesi.
La cosa si ripeté nei giorni a seguire ed io ero sempre più colpito dal fatto che le persone sì parlavano ma molte… litigavano.
E allora incominciai, sì, incominciai a contare, in quel salotto chiamato strada, che mi trovassi a Trieste o altrove.
Cominciai a contare ed interpretare le telefonate di quella gente, che non si rendeva conto, non si interessavano affatto di rendere tutti partecipi, alle loro questioni, che fossero importanti o meno, e facevano del posto in cui si trovavano, una scena degna del miglior teatro greco, con loro protagonisti osservati dall’alto.
Contai, le telefonate vivaci e tese, dure e e scontrose, tristi e difficili, e poi contai le telefonate, frivole, utili, necessarie.
Non fu difficile, anzi, devo dire che era impossibile non essere letteralmente investiti dalle questioni di tutti.
La prima cosa di cui mi resi conto fu proprio la grande quantità di telefonate, di tutti i tipi, generi e tanto altro ancora, che avveniva in percorsi ridotti, intorno a me, intorno a tutti, sia nel tempo, ovunque.
Una, due, tre e così andai avanti per un arco temporale che mi ero stabilito, dando come parametro, assolutamente da seguire, la casualità.
Quale risultato? Il 30% delle telefonate spontanee, sulla strada, era caratterizzato dall’essere basato sulla lite anche molto accesa.
Questa che vi ho raccontato è una piccola esperienza , che, a modo suo, risulta essere decisamente significativa.
Forse quell’utilità dei telefoni ha lasciato il passo ad un uso “belligerante” dell’apparecchio e, alla fine, se anche voi, come me, vi imbarazzate a parlare “in pubblico”, sappiate che siamo una minoranza poiché sono tanti, anzi tantissimi, che fanno degli spazi aperti e comuni, il luogo ideale di condivisione della propria vita.

 

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