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Il Corona Virus e quella linea sottile tra il diritto alla salute e la possibilità di garantirlo.

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il mare al tramonto. foto BM 2015

(di Biagio Mannino)

Chi lo avrebbe mai detto?
Trovarsi, in poco più di due settimane, da spettatori, comodamente seduti sul divano di casa,  che guardavano alla TV i servizi giornalistici sull’epidemia di Corona Virus in Cina, a protagonisti delle scelte che, di fatto, limitano le nostre libertà ma finalizzate a garantirle in un futuro speriamo non troppo lontano.
Dal divano degli osservatori a quello degli osservati, guardare e adesso guardati, chiusi nelle nostre case, chi più, chi meno, per un periodo non quantificabile, per un risultato sperato ma non garantito.
Guardati da chi, tra poco, sarà a sua volta guardato, perché quell’epidemia venuta da lontano, da molto lontano, ha fatto prendere coscienza che poi, alla fine, il mondo non è così grande.
Strana la sensazione di capire improvvisamente che, prima, si aveva tutto, e, dopo, rendersi conto come questo tutto sia veramente poco e fragile, che, come nel tempo di un battito di ciglia, si possa ritornare a non avere più niente.
I nuovi valori e principi si scontrano contro quei diritti inalienabili per cui i nostri padri avevano lottato e lottato duramente a costo della libertà più grande: la vita.
L’aperitivo diviene il surrogato del concetto di poter essere, di poter fare, e l’individualismo, dominante sempre di più, diviene nel tempo il principio fondamentale dell’apparente senso di realizzazione democratica.
Mal si concilia, però, nel momento in cui quell’individualismo deve la sua esistenza all’appartenenza ad una collettività, che in modo inconsapevole, ne rende il senso stesso della sua esistenza.
Quell’aperitivo esiste perché c’è chi lo rende possibile.
Il diritto, così fondamentale, così importante, così presente nel nostro immaginario collettivo, così presente nelle parole di tutti e, anche, così abusato, c’è perché ad esso si contrappone quel principio sempre un po’ ostico da accettare, ovvero il dovere.
Non c’è diritto senza dovere.
L’estensione da tutta Italia delle regole applicate alla zona rossa, implicano dei doveri per garantire i diritti.
Occorre un forte senso di appartenenza al gruppo sociale, che non si chiama però Italia, che non si chiama Cina, che non si chiama Europa ma, semplicemente, si chiama mondo, anzi, Mondo!
In una società globalizzata, dove il sistema basato sul consumismo garantisce , al momento, la sopravvivenza del sistema stesso, il concetto di confine è quanto mai insignificante nel momento in cui, quegli elementi utili alla sua realizzazione, di fatto, confini non ne hanno.
E così il crollo delle Borse mondiali non guarda alle bandiere, il panico dei popoli porta a rifugiarsi là dove si può, le epidemie dilagano senza che alcuna sbarra, passaporto o visto possa, in qualche modo, trattenerle al di là del… confine.
Parlare di Stati in queste situazioni è quanto mai relativo, parlare di unione di intenti, d’obiettivi, di salvaguardia dei diritti inalienabili e di doveri per realizzarli, è quanto mai auspicabile.
Il diritto alla salute, così importante, così prezioso, così scontato, così dimenticato quando, come in Italia, se ne beneficia al punto di potersi permettere di non rendersi conto che, la Costituzione Italiana, la tanto criticata Costituzione Italiana, lo garantisce in modo assoluto, ma, la Costituzione formale viaggia su strade diverse da quella materiale e, alla fine, trova a scontrarsi con la realtà oggettiva dei fatti, ovvero la possibilità di renderlo effettivo per tutti.
La velocità di diffusione del Corona Virus, le caratteristiche dello stesso, la necessità di cure impegnative, rendono il sistema sanitario potenzialmente a rischio di blocco.
Allora quel diritto si scontra contro la possibilità di renderlo garantito a tutti e necessita del dovere collettivo.
Il dovere ci riporta da quel principio individualistico ad una visione di appartenenza sociale ad un gruppo, da un sacrificio finalizzato a noi stessi ad uno finalizzato a tutti per, nuovamente, garantire a noi stessi di sopravvivere.
Il gruppo come strumento di salvaguardia dell’individuo, gli individui come parte unica del tutto.
Ma non possiamo guardare al percorso di risoluzione del problema se, contemporaneamente, non concepiamo che anche “gli altri” fanno parte del tutto.
Individui, quindi, di una società globale, che trasforma il momento di crisi in uno di opportunità, che capiscono di cogliere l’occasione per uscire da questa esperienza ricchi di aver provato quella paura che permette di vedere le cose in modo diverso, che permette di impostare il cammino collettivo degli uomini e non il piccolo sentiero del singolo uomo.
Alla fine, però, il dubbio resta: quell’aperitivo, dopo, sopravviverà al Corona Virus?
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Qual è il senso della vita?

830480_4471158819175_617803408_o(di Biagio Mannino)

Qual è il senso della vita? Adire il vero… non lo so.
No, non lo so.
Quante discussioni ho sentito. Quanti incontri ho visto e a quanti incontri ho partecipato. E ancora lunghe disquisizioni, piacevoli confronti, eleganti chiacchierate, meravigliosi dialoghi intellettuali, tanti soldi spesi nei caffè… e poi, alla fine… niente.
Niente di niente. Assolutamente niente!
Sì, è così. Cercare di capire, di comprendere, di conoscere, di avvicinarsi in qualche modo al significato, a quel senso della vita che, forse, e sottolineo forse, ci caratterizza ed unisce tutti, uomini e piante, animali e ogni genere vivente, sul nostro pianeta e ovunque nel fantastico incomprensibile universo, è, francamente, impossibile ed avvilente.
Quante domande ci poniamo. Quante risposte ci diamo. Forse addirittura, superiori numericamente ma, prive di ogni sostanza.
Perché è questo che cerchiamo alla fine, la sostanza.
La materialità della vita, la visione di una continuità di ciò che abbiamo, di ciò che concepiamo unicamente come essere, quello che vediamo con gli occhi, che sentiamo con le orecchie, che tocchiamo con la nostra mano e… nulla di più.
Un fiore, il mare, le nuvole. Bianche, nere. E la foresta, il canto degli uccelli, la pioggia che cade. E poi il sole al tramonto e la luna luminosa nel cielo.
Una farfalla che vola e un profumo intenso di lavanda.
Bellezza e sensazioni, spettacolo e meraviglia e dietro , però, la vita, quella dell’altro, di quel fiore, di quella farfalla, di quegli uccelli che lottano disperatamente per sopravvivere.
Come non rimanere stupefatti dal vedere un gabbiano che vola libero, alto fino a quel punto in cui il blu del mare e l’azzurro del cielo si incontrano.. E poi vederlo tuffarsi, rapido nell’acqua, per prendere quel pesce. E allora come non fermarsi, almeno un attimo, a pensare che adesso, quel gabbiano, potrà guardare al domani e quel pesce, ora, non c’è più.
Sacrificare o, in parole ben evidenti e crude, uccidere quel pesce, nessuna alternativa a ciò che è.
E così tutto, dove la gioia non c’è se no c’è la tristezza, dove tutto è perché esiste il non è, dove la vita c’è solo perché esiste la morte.
Come sono belle quelle foto della Terra vista dallo spazio. Bellissime ma poi, sotto quei colori bianchi intensi e quel blu del mare e quelle spirali fatte dai venti che muovono tutto, lotta e disperazione, conquista e sconfitta, continuità e conclusione, benessere e dolore, nascita e morte, nel tempo, lungo o breve che sia, istantaneo nel presentare i suoi effetti, le sue conseguenze.
E così camminare in un bosco, in una città, in riva ad un fiume, ovunque, in qualsiasi stagione, in qualsiasi condizione e guardare, osservare e consolarsi con lo stupore di essere partecipi di tutto questo e semplicemente chiedersi… perché.
Partecipi e ammirati, colpiti ed increduli ma niente di più, nessuna illusione perché le illusioni non appartengono a questa manifestazione della realtà.
Capire. Questo grande sforzo che cerchiamo di fare. Questo grande sforzo che cerchiamo di fare, sempre, giorno dopo giorno, sempre.
Capire per vivere, ancora, e ancora e ancora, senza fine, quando poi è un po’ negare il tutto. Semplicemente imbrogliarsi e tentare di imbrogliare.
Domande, confronti, interrogativi di tutti i tipi e poi passare alle ritualità, a tentare di fare per ottenere e non ottenere niente. O, almeno, niente di ciò che vogliamo.
Perché? Per quale motivo?
Esiste un centro? Un punto su cui fare riferimento?
Forse sì. E l’unico che mi viene in mente è quello rappresentato da noi stessi dove, in definitiva, collochiamo il nostro centro dell’universo.
E allora tutto ruota intorno a me, intorno a te, intorno a lui, a lei e poi a Lei e a lei e a lui e, così, intorno a tutti.
No, troppe domande, troppi pensieri, troppa fatica per poi tornare al punto di partenza senza aver ottenuto alcuna risposta all’unica, errata, inutile,domanda: qual è il senso della vita?

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Scusate se vi disturbo ma oggi vi parlerò di… morte.

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il mare al tramonto. foto BM 2015

(di Biagio Mannino)

Scusate se vi disturbo ma oggi vi parlerò di… morte. Forse, molti di voi, difronte ad un titolo come questo, avranno già chiuso la pagina, velocemente. Non si sa mai… Vi comprendo.
Non avrei trattato questo argomento. No, non lo avrei trattato fino a pochi mesi fa, quando, purtroppo, un gravissimo lutto mi ha colpito.
Non so bene come impostare la riflessione, mi riesce veramente difficile iniziare, trovare le parole adatte, riuscire ad esprimere quello che penso, quello che provo.
Mi disturba dire “un gravissimo lutto mi ha colpito”. Sì, mi disturba perché assieme ci sono le parole “gravissimo” e “lutto” che, da sempre, o evitato proprio per evitare ciò che evitabile non è.
Ma mi disturba ancor di più il concetto “mi ha colpito”, perché colloca me al centro della questione e non la persona mancata e, questo, realmente ed emotivamente, mi fa sentire molto egoista.
La confusione è infinita e, da quando tutto è successo, poco più di tre mesi fa, le domande e i pensieri sono tantissimi e sembrano girarmi intorno come un vortice.
E questo continuo interrogarsi, cercando di darsi qualche risposta, alla fine, mi porta a chiedere a me stesso, in quello che ormai è diventato un dialogo tra me e me, se abbia raggiunto qualche cosa, una minima risposta, un senso di comprensione a tutto ciò che è successo, un perché, uno scoglio al quale aggrapparsi dopo essere affondati e circondati da un mare in tempesta.
Chi ha provato l’esperienza del lutto, del lutto grave, del lutto gravissimo, sa bene come, improvvisamente, tutto assuma un valore, un significato diverso.
Quello che consideravo importante, quello che mi dava soddisfazione, quello che mi faceva arrabbiare, prima, adesso, non conta assolutamente più.
Appare una visione della vita completamente diversa, meno legata alle cose, anzi, direi, completamente distaccata dalle cose, e un orizzonte del tutto nuovo, inaspettato, è lì, di fronte, dove la vita diventa una delle due componenti del nostro effettivo essere.
Sì, perché l’altra è la morte.
La morte, che prima non volevo neanche pronunciare, che prima non volevo neanche pensare, che prima volevo solo evitare, quando passavo le ore difronte al computer cercando e ricercando, e poi cercando di nuovo impossibili soluzioni per aiutare mia mamma, per aiutarla ad andare avanti, a curarsi, a guarire.
E invece no, è arrivata ed io ho visto la mia sconfitta e tutta la perdita.
Ma no, non è così. Da quel momento tutto è apparso diversamente duplice.
Non solo la vita ma la vita e la morte, insieme.
Tante parole mi sono state dette, tante frasi, come  “il tempo che sistemerà tutto”, come “vedrai che tutto passa” e tante, tante altre sciocchezze come queste che, alla fine, servono solo a continuare l’illusione di sfuggire alla morte, per chi le pronuncia.
Invece la più pragmatica delle persone che conosco, una professoressa di matematica, anziana, mi dice una cosa semplicissima che, nella sua essenzialità, mi ha aperto un mondo: “La morte è la cosa più naturale che ci sia”.
Tante cose ho visto nel cammino, anzi, nella battaglia di mia mamma. Ho visto persone che tentavano di sorridere a tutti i costi, ho visto pianti di pazienti disperate, ho visto gente cattiva fare cose cattive e gente buona… non riuscire a fare niente. E ho anche visto figli litigare perché la madre… non si decideva.
Tante cose ho fatto. Ho corso da un ospedale all’altro alla ricerca della speranza, sono andato a bussare a tutte le porte chiedendo di aprire e dare la soluzione. Sono andato in Chiesa a pregare che tutto potesse, semplicemente… fermarsi.
No, non può il tempo risolvere. La situazione è cambiata e resta cambiata. Cambiata. Sì, ma come?
No, non è bastata la frase, non è bastata l’acquisita consapevolezza dell’insieme vita morte in un tutt’uno, la consapevolezza di quanto tutto ciò sia naturale ed imprescindibile. Non è bastato a consolarmi, ad asciugare le mie lacrime ormai insipide. No, non è bastato.
Ma è servito a guardare le cose in modo diverso cominciando proprio dal non dare nulla per scontato, dal non aver paura di quello che c’è, dal guardare con occhi aperti, dal non aver paura di conoscere e di sapere.
A tanti che mi incoraggiavano con considerazioni, lodevoli nelle intenzioni, ma povere nei contenuti, sono seguiti tantissimi che si sono aperti, che mi hanno raccontato, del prima, del dopo, delle loro reazioni e delle loro sensazioni fino alle loro percezioni.
Un altro modo di vedere, di sentire, personale, intimo, segreto ma accompagnato dal desiderio di dirlo, gridarlo al mondo.
Io, pragmatico da sempre, convinto di esserlo, forse mai stato, cambio la rotta e quelle ore passate nel tentativo di fermare ciò che è la cosa più naturale che c’è, si esauriscono e, adesso, le trascorro nel tentare di comprendere ciò che i miei occhi non riescono a vedere, come se fossero coperti da un velo che non voglio togliere, involontariamente. E lo sforzo inizia ad essere superato dalla consapevolezza di questo.
Ascoltare tutto e tutti, i loro racconti, le loro riflessioni, le loro paure. Cercare, scrivere, trovare e provare nuovi spazi.
Io, che oltre all’arida geopolitica non guardavo, ho iniziato a scrivere poesie. Un’esperienza strana. Una penna e un pezzo di carta. E poi il resto…
Tutto è difficile, tutto è faticoso, tutto e doloroso. E anche scrivere questa riflessione lo è. Rifugiato in un bar, lontano da ovunque i miei ricordi possano incontrarmi.
Adesso è diverso. Veramente diverso.