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La relatività della storia e del simbolo. Di Biagio Mannino

 

La relatività della storia e del simbolo.*
di Biagio Mannino.
La storia è una scienza perfetta?
E’ questa una domanda alla quale non è facile rispondere, anzi, il concetto che sta alla base di questo quesito è difficile, se non addirittura impossibile da realizzare.
La scientificità della materia è data dal fatto che la stessa è oggetto, appunto, di studio e, di conseguenza, protagonista di confronti, dibattiti, teorie e accesi scontri.
Se trattare la matematica implica ragionamenti che si concludono con le dimostrazioni delle ipotesi, la storia è, sostanzialmente, indimostrabile poiché, alla sua base, ha i comportamenti assolutamente soggettivi degli uomini i quali producono risultati oggettivi ma che si scontrano poi con altri comportamenti soggettivi di altri uomini, quelli degli studiosi ma che non trovano una dimostrabilità effettiva degli eventi poiché la parola stessa, “eventi”, li colloca nel passato.
Sono accadimenti del passato, avvenuti, e la loro memoria è data da componenti sì oggettive come , ad esempio, documenti, foto, video, e da altre, soggettive, come i ricordi e, conseguentemente, facili all’interpretazione personale.
La comprensione di ciò che fu diviene un’impresa ardua poiché sullo storico ricade la responsabilità di saper raccogliere tutte quelle informazioni  certe e saperle unire a quelle incerte al fine di dare un’interpretazione più vicina possibile, ma assolutamente, per definizione, opinabile, di cose che sicuramente sono state ma delle quali non si avrà alcuna prova assoluta.
E allora?
E’ evidente che  la responsabilità che grava sugli storici è rilevante poiché ciò che sarà appreso dipenderà non solo dal risultato delle loro ricerche ma anche dall’obiettiva gestione dello stesso.
La storia rientra in quel caotico vortice che si chiama “politica”.
La politica, ovvero, nel suo significato più semplice:  l’obiettivo. L’obiettivo che uno Stato, un partito,  un’insieme di persone unite da comuni interessi e quant’altro… hanno.
La storia, nel sistema della politica, nel perseguimento di quel determinato obiettivo, diviene oggetto di primario interesse, oggetto di strumentalizzazione.
Gli storici rischiano, consapevolmente o non consapevolmente, di essere utilizzati per confermare teorie che legittimano le scelte dei politici con progetti ben precisi ma che esulano dall’effettivo senso della veridicità della storia.
Allora la storia assume un valore plurale e, appunto, da “storia” diviene “storie” e la discussione si sposta dal piano della conoscenza di ciò che fu a quello della contrapposizione di ciò che si ritiene che effettivamente fu e che non coincide, per motivi ideologici, con quello che fu per gli altri.
Si parla, come detto, di storie e non di storia, di memoria e non di memorie, della verità di qualcuno diversa dalla verità di qualcun altro per poi passare alla “vera verità” per arrivare all’omissione della stessa storia.
Omettere al fine di dimenticare, omettere al fine di creare una nuova storia dove ciò che fu non è mai stato e ciò che non è mai stato diviene ciò che fu realmente.
Sono passati cento anni dall’inizio di quella che  veniva chiamata Grande Guerra e che dopo, a seguito dell’altra grande guerra, ha avuto una numerazione chiamandola Prima Guerra Mondiale e l’altra Seconda Guerra Mondiale.
I numeri tondi ispirano sempre la volontà di ricordare, celebrare e, spesso, anche se riguardanti avvenimenti tragici come appunto le guerre sono, di festeggiare.
Dopo il primo anno, al decimo anniversario, al venticinquesimo, al cinquantesimo, al centenario e via dicendo, si sente l’esigenza di rivivere con la memoria e con la partecipazione storica eventi che molto spesso la logica della politica ha trasformato se non del tutto dimenticato.
Eppure, sebbene gli anni passino, il ricordo è presente e la consapevolezza che i propri padri, nonni o, in generale, familiari, siano stati presenti a quegli accadimenti, rendono viva la storia unendola ad una volontà di conoscere e di far conoscere ciò che i vincitori ritennero opportuno cancellare.
L’occasione che all’Istria ed a Trieste si presenta negli anni del centenario della Grande Guerra si manifesta in tutta la sua potenzialità dove, come fantasmi ansiosi di farsi vedere, storie di famiglia, documenti, fotografie, oggetti di vario tipo, ricordi, ed anche leggende emergono dai cassetti e dalle cantine, sporchi di polvere, profumati di muffa, portatori di un messaggio a quelle generazioni contemporanee di volontà di conoscere la vera storia, la loro vera storia.
Il rischio è sempre quello: la strumentalizzazione che si unisce in queste occasioni alla paura di coloro i quali ne hanno fatto uso di essere a loro volta il prossimo soggetto, o meglio, oggetto da riporre in un cassetto, in attesa di qualche casuale evento che tra dieci, venti o cento anni, li riporti fuori e li faccia conoscere.
E’ questo il continuo gioco che le terre di confine, di confine tormentato da contrapposizioni, si trovano ad affrontare al punto tale da rendere così normale questa situazione da non accorgersene della sua presenza.
L’Austria Ungheria diviene il nemico solo pochi anni dopo la celebrazione, nuovamente la celebrazione, del cinquecentesimo anniversario dell’atto di dedizione all’Austria della città di Trieste e se ai duemila giuliani che combatterono nelle fila dell’esercito del Regno d’Italia si dedicano onori e piazze, ai quarantamila che combatterono nei reggimenti come il novantasettesimo nelle fila austro ungariche, il solo ricordo portava fino ad oggi imbarazzo e desiderio di dimenticanza.
Ma allora? Come affrontare il problema di quel concetto che, esprimendosi con un gioco di parole, evidenzia che tutto è relativo, ovvero quello espresso dalla così detta “verità vera”?
Lo studioso, che sia storico o politologo, sociologo o filosofo, deve partire da due punti di osservazione: quello dei politici e quello delle masse.
In una società contemporanea dove il sistema mass- mediatico diviene totalizzante nell’indirizzo educativo, appare evidente come sia più semplice di quanto si possa immaginare mandare messaggi di indirizzo alle masse utilizzando proprio i percorsi suggeriti dalla stessa psicologia delle masse.
Ritengo che sia difficile, se non impossibile, arrivare ad una presa di coscienza collettiva che vada nella direzione della maturità, ovvero nella capacità di valutare con obiettività, sincerità e disponibilità.
Quanto ricordato in merito al centenario dell’inizio della Grande Guerra ci porta a vedere come con l’attentato di Francesco Ferdinando inizi solo un lungo percorso che trova una sorta di immaginaria conclusione solo il 9 novembre 1989, con il crollo del Muro di Berlino.
Anni, tanti anni che hanno sconvolto l’intera Europa, che hanno sancito la fine di un modo di concepire la società e l’intero sistema delle cose e che, in alcune terre più che in altre, se ne sono duramente vissute le conseguenze, sia negli eventi che nelle espressioni politiche, sociali e storiche successive.
E una di queste terre è proprio l’Istria che con Trieste rappresentano l’esempio della storia europea del XX secolo, della tragica storia europea del XX secolo.
Cos’è l’Istria?
Definirla come una penisola, posta a nor -est di quel mare  Adriatico che, per sua natura si mostra come una realtà chiusa e dove i caratteri delle genti che vivono sulle coste più lontane dalla sua apertura, dalla sua comune appartenenza al Mediterraneo, sembrano mostrare la stessa chiusura unendoli e rendendo la geomorfologia e l’antropizzazione una sola realtà.
Sarebbe troppo semplice definirla in questo modo poiché l’Istria stessa è di per sé una definizione instabile, una mutazione legata a quel concetto di paesaggio che in essa vede tutti quegli elementi fisici che vanno dal mare al Carso e la mostrano nella sua complessità, nella sua diversità così come la gente che vi vive, oggi come ieri, deve abbandonare il concetto di singolarità per abbracciare quello della pluralità, alla ricerca della consapevolezza di quanto questo rappresenti, di fatto, una ricchezza.
Pluralità dunque, di paesaggi e, quindi di, elementi geologici, naturalistici, zoologici e vegetazionali, e antropomorfi con genti diverse, lingue e culture unite però nella comune appartenenza, appunto, all’Istria.
E torniamo allora a quanto precedentemente espresso dove la storia diviene fondamentale per comprendere come una terra così piccola rappresenti in definitiva una vera e propria sintesi europea in cui i popoli convivono e si combattono, si spostano e ritornano, vengono ricordati e vengono dimenticati in un apparente eterno percorso fatto di ostacoli ripetuti e ripresentati periodicamente, di oggettive scelte incidenti nelle singole soggettività al fine di creare un unico pensiero legato però ai diversi popoli al fine di un’altrettanta oggettiva strumentalizzazione.
Politica, storia, antropologia e natura in conflitto: questa è l’Istria.
Diviene difficile affrontare lo studio di quelle situazioni, di quei personaggi, vissuti in anni così recenti, così delicati, così sofferti come quelli del XX secolo proprio per il fatto che sono vicini ed ancora doloranti le ferite aperte.
Ma cosa?
E ancora il problema si pone poiché è il punto di vista, il punto di osservazione dal quale si guarda quell’orizzonte che cambia la sua prospettiva  a seconda dell’altezza dell’osservatore.
E così ciò che per uno è, non è per qualcun altro in una lunga contrapposizione generazionale che solo il tempo aiuta a limitare.
Raccontare la storia di figure come quelle di Giuseppe Callegarini richiede uno sforzo da parte dei due protagonisti dell’opera letteraria: lo scrittore ed il lettore.
Il primo ha faticato nella comprensione della figura la cui vita viene raccontata, il secondo nel saper accettare di cogliere tutti quegli aspetti che potrebbero mettere a rischio le proprie convinzioni ed anche i propri stereotipi.
Nei contesti di contrapposizione perdurante negli anni, nelle generazioni, nella memoria dei singoli popoli e dei singoli appartenenti a questi, l’elemento simbolico diviene determinante al fine di trovare in esso un riferimento, un punto in cui vedere riuniti quelli che sono i propri valori, la propria storia, le proprie tradizioni e, semplicemente, ritrovarsi.
L’elemento simbolico si va a manifestare nelle bandiere, negli inni, nei miti e nelle leggende e che vedono negli uomini una elevazione ad un piano superiore, ad un piano in cui la differenza tra il mito e la realtà non è più distinguibile, dove questi uomini divengono simbolo per un popolo intero, da guardare e da imitare, da ammirare e da venerare: questi uomini sono gli eroi.
L’eroe, colui che consapevolmente compie un’azione che molto spesso avrà come conseguenza il proprio sacrificio definitivo, un sacrificio compensato però dalla convinzione di aver agito e preso delle decisioni, appunto, eroiche, nel perseguire quello che è ritenuto essere il bene, ma non il bene soggettivo, individualistico ma quello comune, del gruppo, del proprio popolo e, di conseguenza, della propria famiglia, delle proprie origini.
Ricco è l’elenco degli eroi e dei martiri e non vi è Stato che non li celebri e rispetti, che a loro dedichi vie o piazze, che siano studiati nelle scuole per le loro gesta ed imprese.
Ma le aree di confine, là dove quelle linee immaginarie chiamate appunto “confini” e che in essi trovano una materializzazione, mostrano come il limite tra essere eroe e brigante sia estremamente sottile e facile a rompersi. Infatti quelle gesta eroiche lo sono per alcuni ma non lo sono affatto per altri, poiché c’è chi ne celebra il nome nei tempi avvenire, e chi  dimenticherà completamente.
E’ il triste peso per questi uomini che consapevoli erano solo in parte nel prendere decisioni. Quelle gesta potevano essere comprese da chi ne beneficiava ma avrebbero causato sofferenza in chi le subiva.
Eroi o briganti o, ancor peggio, terroristi? Non conta assolutamente niente di fronte agli occhi di un osservatore che guarda alla storia come una sequenza di cause ed effetti abbandonando quei giudizi universalistici per accettare solo una condivisibilità  o meno.
Se gli eroi di guerra vivono una duplice ed opposta considerazione quelli del lavoro dovrebbero vivere una memoria più serena.
Qui le cose non sono come appaiono poiché l’attribuzione che a loro si deve per il martirio subito nel nome del lavoro è riconosciuta, anche questa volta, da alcuni e non da altri.
Sindacati, partiti, opportunità economiche e finanziarie, volontà di nascondere le responsabilità sono solo alcuni di questi elementi che traslano l’eroe nel dimenticatoio.
Se Giuseppe Callegarini rappresenta l’emblematico esempio di un eroe della resistenza, la sua figura si colloca in un momento storico e in una terra dove i ruoli attivi venivano e sarebbero venuti fortemente strumentalizzati ed ideologizzati, ponendo le azioni di questo uomo non opportune ad essere elevate ad elemento simbolico ma maggiormente degne di essere riposte in qualche scatola in attesa di tempi migliori e, soprattutto lontani, per essere riprese e presentate ad un popolo ormai dimentico addirittura della propria memoria storica.
Dall’altra parte, Arrigo Grassi, viene celebrato eroe del lavoro il cui sacrificio, nelle miniere dell’Arsa salvò molte vite, trova quella elevazione da parte però di un regime, quello fascista che, precipitato portò con sé tutto compresi i suoi eroi.
Due figure, Callegarini e Grassi, che divengono simbolo, sì per le gesta eroiche ma soprattutto per quello che significa la storia complessa e le memorie tormentate derivanti dalle scelte politiche del XX secolo in una tormentata terra che si chiama Istria.

*Tratto dal libro “Giuseppe Callegarini. Un eroe sconosciuto” di Livio Dorigo, Stefano Furlani, Biagio Mannino, Luciano Santin, Roberto Spazzali – edito dal Circolo Istria – Trieste.

La pubblicazione su questo blog è autorizzata dal Presidente del Circolo Istria Livio Dorigo.

 

Nota: l’immagine in questo post è stata tratta da www. wikipedia. it.

 

L’abbattimento del dirigibile “Città di Jesi”

(di Bruno Pizzamei)

Mentre sistemavo le fotografie del mio archivio familiare ho ritrovato una vecchia foto che ricorda un fatto avvenuto durante la prima guerra mondiale.
Fin da bambino ho sempre guardato con curiosità questa vecchia fotografia che documenta l’abbattimento del dirigibile italiano Città di Jesi (immagine 1).Immagine_1 L’aveva conservata mio nonno paterno, che durante le prima guerra era stato dapprima marinaio sulla corazzata Viribus Unitis e successivamente aveva fatto parte del K.u.K. Seeflieger Korps (l’aviazione navale), presso la stazione idrovolanti nel porto militare di Pola.
Il Città di Jesi era un dirigibile della Regia Marina Italiana. Costruito a Vigna di Valle nel 1914, era per molti aspetti un mezzo innovativo in quanto la posizione della navicella di comando consentiva sia all’equipaggio di accedere all’involucro sia a migliorare l’aerodinamica del mezzo.
Con una lunghezza di 88 metri, un diametro di 19 ed un volume di circa 15.000 metri cubi poteva raggiungere la velocità di 50 nodi. All’entrata dell’Italia in guerra al Città di Jesi, di base nell’aeroscalo di Ferrara ed al comando dal tenente di vascello Bruno Brivonesi, fu ordinato di compiere un’incursione aerea contro Pola, principale base della Marina austroungarica. Alla sera del 5 agosto 1915 il Città di Jesi fece rotta verso Pola, con un carico bombe da sganciare sull’Arsenale.
L’equipaggio era formato da sette uomini tra i quali Raffaele De Courten (destinato a diventare Ministro della Marina nel governo Badoglio e Capo di Stato Maggiore della Marina nel 1943).Immagine_2
Raggiunta la costa istriana (immagine2) e dopo aver sganciato tutte le bombe in dotazione, il dirigibile iniziò ad accostare per raggiungere il mare aperto, ma nel corso della virata fu colpito a poppa dalla contraerea: i compartimenti poppieri dell’involucro iniziarono a perdere rapidamente idrogeno, provocando l’appoppamento e la perdita di controllo dell’aeronave, che iniziò a perdere quota sempre più in fretta.
Il comandante Brivonesi cercò di rallentare la discesa, facendo gettare fuori bordo gli oggetti non fissati e spegnendo tutti i motori (per evitare che la zona poppiera dell’involucro, afflosciandosi, finisse sulle eliche in movimento.
Mentre il dirigibile precipitava verso il mare, tutto l’equipaggio si rifugiò in un locale ricavato nella travatura metallica, e poco dopo il Città di Jesi finì nelle acque antistanti il porticciolo di Veruda.
La navicella andò distrutta nell’impatto, mentre l’involucro poppiero si afflosciò, completamente deformato, sulla superficie. L’involucro prodiero, ancora pieno di gas, conservò almeno in parte la propria forma, restando impennato verso il cielo.
Poco dopo la travatura cedette gettando in mare i sette uomini, tutti illesi, che furono poi recuperati da un’imbarcazione e fatti prigionieri. La carcassa del Città di Jesi, trainata nel porto di Veruda per essere studiata dai militari austroungarici, fu in seguito smantellata.
L’abbattimento del Città di Jesi fu utilizzato ai fini propagandistici dalla autorità austroungariche. La fotografia in mio possesso, che rappresenta il dirigibile attraccato al molo di Veruda e analizzato dai tecnici austriaci prima di essere smantellato, è una delle 1000 copie stampate dall’editore Marincovich di Pola e distribuite al prezzo di 80 Heller. Immagine_3Esiste anche una rara cartolina austriaca (immagine3) realizzata da un quadro del pittore Harry Heusser per conto del “Flottenverein”, l’Ente austriaco per l’assistenza e la raccolta di fondi per la Marina Imperiale. La cartolina raffigura l’abbattimento del dirigibile italiano “Città di Jesi” durante il suo bombardamento dell’Arsenale militare di Pola e alcune navi austriache che si apprestano a raccogliere i naufraghi.

Bruno Pizzamei

Notizie tratte da: Basilio Di Donato “I dirigibili italiani nella Grande Guerra”, Aeronautica Militare – Ufficio storico.

 

Nota: le immagini in questo post sono state fornite dall’autore dello stesso con la seguente descrizione:

1 ArFF-Collezione Bruno Pizzamei
2 Google Maps(modificata)
3 http :// www. mymilitaria.it/liste_03/jesi_ card.htm

 

Il progetto A.r.F.F.

(di Bruno Pizzamei)

Tre persone, il sottoscritto, Franco Cecotti e Silvia Zetto, quattro anni e mezzo fa hanno deciso di attuare il progetto: Ar.F.F –  archivi fotografici delle famiglie – Raccolta, riordino e conservazione di archivi fotografici familiari.
Obiettivi del progetto sono la conservazione con strumenti informatici del materiale raccolto (per evitare ad esempio di vederlo messo in vendita dai rigattieri o nei mercatini dell’usato), l’organizzazione del materiale per temi e la disponibilità del materiale sia per la ricerca storiografica che per una divulgazione più ampia
L’abbiamo fatto sulla base di qualcosa che ci accomuna. Abbiamo insegnato per gran parte della nostra vita. Abbiamo una passione per la conservazione delle storie e delle memorie dunque per la Storia e un interesse per le fotografie, fonte difficile e ambigua a volte, ma che riesce a trasmettere il clima di un’epoca più di quanto altre fonti non riescano a fare.
Abbiamo raggruppato il materiale raccolto in categorie:famiglia, scuola e didattica, lavoro, tempo libero, sport, riti, cartoline, politica, guerre e militari, emigrazione, ritratti, documenti, veicoli e mezzi di trasporto, luoghi, materiali fotografici:
Abbiamo  iniziato con le fotografie dei nostri personali archivi. Le abbiamo passate allo scanner, siglate e catalogate.
Poi ci siamo rivolti ad amici e conoscenti: in un tempo relativamente breve abbiamo costruito più  di 80 archivi e raccolto quasi 14.000 foto grazie alla generosità e soprattutto alla fiducia di chi ce le ha affidate.
Con il materiale in nostro possesso abbiamo costruito e presentato presso enti, circoli e associazioni, dei percorsi quali ad esempio
Istantanee Fotografi di strada
Cantieri e navi Costruzione, vari e allestimenti in Istria, a Muggia e a Trieste negli anni ’40, ‘50  e  ‘60
Navi e marinai Storie di marinai triestini
Treni, stazioni, tram e trasporti Nelle fotografie degli archivi fotografici familiari
Quel che resta della guerra Le fotografie della prima guerra mondiale conservate dalle famiglie.

Bruno Pizzamei